Dopo un po’ la mia mente, dentro la vasca fumante, cominciava a distogliersi da sogni effimeri e a ritornare pian piano nella realtà, così che immaginavo di trovarmi prima nelle acque limpide del Tevere degli anni ’40, poi in quelle torbide degli anni ’60, in quelle maleodoranti degli anni ’70, in quelle nauseabonde degli anni ’80 e infine in quelle vomitevoli degli anni ’90, in un tramonto inarrestabile.
A riguardo non immagino chi la spunterà nell’avvincente guerra dei nervi, i Verdi più battaglieri che ancora sperano con fervore nella prossima rinascita del fiume o i colpevoli politici, corrotti da corrotti industriali, spesso non Verdi, che pur di salvare i propri loschi interessi economici si fanno fotografare mentre bevono con gusto le acque ripugnanti nei pressi della foce, mettendo in mostra accattivanti e convincenti striscioni con messaggi del tipo “Tutta l’acqua che scorre si può bere”, oppure “L’acqua che fluisce fa marcire i pali e allontana i mali”.
Per il troppo inquinamento, come mi racconta un vecchio lupo di mare di Sorrento, molti pescatori fluviali hanno dovuto purtroppo “appendere il pesce al chiodo”, come fece la moglie di Bobbit il giorno in cui non trovò altro a portata di mano da mettere sulla troppo vuota parete della camera da letto.
Sorte migliore capitò a Otto, il mio migliore amico, quella volta in cui i cuginetti gli fecero il simpatico scherzo di nascondere nella vasca piena di schiuma bianca, pronta per un bagno corroborante, l’aragosta di due chili ancora viva comprata con sacrificio per il cenone di Natale, trascorso di conseguenza al Pronto Soccorso con una enorme chela ancora attaccata, insieme al resto dell’enorme crostaceo, sul gluteo sinistro.
Poi spalancai del tutto gli occhi e mi si presentò davanti lo splendido scenario del mio bagno di casa: la finestra decorata sull’angusto cortile dello stabile faceva filtrare una luce soffusa che colorava di splendidi toni caldi il barattolo della schiuma da barba e il tubetto tormentato del dentifricio, appoggiati, solitari, sulla mensola polverosa dello specchio “fine ottocento”.
No, non è che quello specchio sia un’originale opera artistica della fine del secolo scorso: è che l’ho battezzato con quel nomignolo perché lo comprai una domenica di settembre al mercato di Porta Portese per trentamila lire, partendo da un prezzo base di ottocentotrentamila, che comunque possedevo in tasca e che rappresentavano le ultime mie sostanze pecuniarie.
Certo ormai di un acquisto insperatamente vantaggioso non mi resi conto che uno zingarello di cinque anni, approfittando del mio nuovo ingombrante bagaglio, mi sfilò con perizia dalla tasca tutte le ottocentomila lire che avevo faticosamente risparmiato dal costo iniziale, motivo per cui, anche se con rammarico, lo ricordo così.
Su quel vetro ormai opacizzato facevano fatica a riflettersi le crepe misteriose dell’intonaco “verde pisello” che tanti sussulti causava alla mia pia nonnina, la quale entrava sempre in bagno a occhi chiusi per non commettere un peccato nel pur solo guardare quel colore immorale.
Quante volte l’ho raccolta implorante a testa in giù dentro la vasca, fortunatamente vuota, con le gambe all’aria, dopo essere inciampata, visti gli occhi chiusi, in scatole, stracci, scarpe o in qualche piatto d’insalata distrattamente lasciati vagabondare in terra.
Vi chiederete cosa ci stessero a fare in bagno piatti raminghi d’insalata, ma se conosceste bene la mia mamma e sapeste cosa riesce a farmi trovare in frigo non sareste più così sorpresi: telefoni senza filo, a volte anche con il filo, telecomandi, gomme di scorta, un giorno un trapano elettrico, l’anno scorso una ormai ritenuta introvabile enciclopedia universale, scarpe slacciate, scarpe allacciate, e, credetemi, è grande il timore di trovarci un giorno o l’altro una scarpa con ancora infilato un piede.
Che Dio ce la mandi buona, come disse Emilio Fede sapendo dell’arrivo della nuova segretaria.