Non ho mai capito che cazzo ci stessero a fare nei miei sogni tropicali quei cazzo di pini silvestri alpini: secondo la mia ex psicologa, Giulia, la causa è da ricercarsi nella martellante pubblicità natalizia della Coca Cola.
Un mio atroce dubbio ricorrente è se sia nata prima la Coca Cola o l’albero di Natale.
Di certo però i signorotti medievali rosicavano non poco invidiosi sapendo di non avere ancora a disposizione la Coca Cola, e tutti i nomignoli che allora destinavano alle loro bevande, tipo “nettare degli dei”, “succo di miele”, “essenza di donna”, servivano per togliersi dalla testa la preziosa bibita gassata.
E così a Natale dovevano accontentarsi di bere decotti di linfa di abete raccolta proprio sulla montagna da dove in televisione vediamo scendere il familiare serpentone ondeggiante di sciatori con torce accese in mano: ancora oggi i pronipoti di quei nobili messeri reclamano al Signor Coca Cola i diritti sui copyright della pubblicità di Natale!
Bisogna dare a Cesare ciò che è di Cesare, come disse Craxi dividendo una tangente di trecento milioni con un paio di innominabili amici del partito.
Invece Giulia non è ancora riuscita a darsi una spiegazione plausibile del perché dovessi sognare l’Africa centrale invece, non so, dell’Umbria orientale o della Manciuria meridionale: che io sia un po’ razzista?
Non credo, visto che la maggior parte dei miei soldi li spendo nel traffico romano sorridendo benevolmente a polacchi, marocchini e albanesi che gentilmente prima, e con la forza poi, chiedono il permesso di lavarmi i vetri dell’automobile.
Quando ho un appuntamento con una ragazza sono certo di arrivare con i cristalli lucenti ma senza più una lira in tasca.
Un rumeno, Nickolai, che aveva studiato tale mia debolezza per giorni e giorni, nel tragitto di novecentosedici metri che mi separava dal portone di Natasha e nel quale erano disseminati diciassette semafori, tutti rossi, riuscì a lavarmi i vetri trentasei volte, e dopo aver verificato che gli avevo ormai generosamente offerto le mie ultime settantottomila lire, minuziosamente racimolate per far bella figura quella sera, riuscì anche a portare a ballare lei, Natasha, potendosi permettere ora lui ciò che fino a novecentosedici metri prima potevo permettermi io.
Natasha, una graziosa e spudoratamente eccitante diciottenne danese che avevo convinto faticosamente a provare insieme a me i piaceri dell’azoto in bollicine dentro una vasca schiumosa contornata da uva e champagne.
Nella strada del ritorno fui anche selvaggiamente picchiato e denudato da undici falsi bosniaci minorenni, che prima si offrirono di lavarmi il lunotto posteriore gratis, e poi inveirono contro di me, colpevole secondo loro di essere uno spietato sfruttatore e di non voler donare neanche cento lire per la cortesia.
Meglio poco che nulla, come disse la moglie di Bossi la prima notte di nozze, notando che erano passati solo dodici secondi.
Mentre mi picchiavano, sotto uno di quei semafori rossi che avevano fatto la fortuna di Nickolai, mi accorsi che era finto, di legno, con il solo rosso dipinto, e così dovevano essere tutti gli altri: da allora diffido dei rumeni vestiti con una tuta da imbianchino, e diffido anche dei pittori che dipingono rumeni.