Terminai comunque la condanna prima del previsto quando il direttore, ex maestro elementare con la mania di mandare fuori dall’aula i bambini che non mostravano interesse per i suoi insegnamenti, si accorse che non prendevo sul serio il discorso di fine anno pronunciato con enfasi dal palchetto nel cortile del carcere, e mi cacciò fuori perché oltretutto distraevo gli altri detenuti, specialmente “er Palletta” che a causa degli eccessi di panettone e spumante, distribuiti a volontà in quella occasione nel penitenziario, era diventato proprio troppo gonfio, come disse la Parietti al chirurgo plastico il giorno del primo tagliando della sua tetta sinistra.
Rimanendo per un momento su Bossi, l’iconografia classica lo rappresenta in effetti quasi sempre con gli occhi puntati sullo Stato del Papa, proprio perché secondo lui i leghisti ce l’hanno talmente duro che la sede ideale del partito dovrebbe essere, per diritto naturale, la Cappella Sistina.
A sostegno di tale tesi si è schierato anche De Mita, la cui innegabile simpatia dipende in gran parte da quel suo gradevole difetto nel pronunciare la lettera “p” come la “b”, e in quella deliziosa, strettissima lettera “e”.
Quelli della Lega l’hanno scelto come ideale luogotenente in Irpinia quando, non considerando l’imperfezione vocale, durante un comizio a Mantova al fianco di Bossi pronunciò a caldo la storica massima: “Il bene non è mai troppo”.
Ci fu un’ovazione che De Mita ancora oggi ricorda con orgoglio senza peraltro rendersi conto del perché di tanto successo.
L’inflessione dialettale del proprio paese d’origine resta indubbiamente una preziosa caratteristica culturale che varrebbe la pena preservare come patrimonio storico oltre che folcloristico, come afferma sempre il mio fioraio, un ometto talmente sensibile che durante ogni fine settimana d’autunno organizza il funerale per centinaia di foglie morte.
E’ sempre stato un divertente, accanito sostenitore del dialetto romanesco, e le sue salaci osservazioni nelle riunioni tra amici vengono applaudite con diletto da tutti, anche se talvolta si creano equivoci indicibili specie per il fatto che, come il suo gergo impone, tronca spesso la parte finale delle parole, pronunciando “mangià” invece di “mangiare”, “giocà” invece di “giocare” e, soprattutto, “lavà” invece di “lavare”.
Proprio in quest’ultimo caso potete ben ricostruire cosa uscì fuori dalla sua bocca, tra l’imbarazzo generale, vista la presenza di due vescovi e quattro sagrestani ultrasettantenni, durante una cena in un raffinato casale toscano, quando parlò in accento trasteverino di quanto adorasse “lavare Gina”, come intimamente chiamava la sua Vespa del ’71, non previdentemente spiegandolo all’inizio del discorso.